domenica 27 febbraio 2011

Caro Fini, se non ora quando?

La doppia presidenza di Gianfranco Fini, che pure si è formalmente “sospeso” da quella di Futuro e libertà ma è costretto a esercitare anche quella funzione data la crisi che ha investito il partito, crea imbarazzo soprattutto ai suoi potenziali alleati. Le opposizioni, che si erano immediatamente schierate contro la richiesta di dimissioni del presidente della Camera avanzate dal Pdl, ora fanno intendere che la condizione di Fini è diventata insostenibile da quando ha assunto la guida di un partito. Ora anche Antonio Di Pietro ammette, come già avevano fatto numerosi esponenti del Partito democratico, che, nelle condizioni di Fini, avrebbe abbandonato il seggio più alto di Montecitorio. Se, dal punto di vista giuridico, la carica istituzionale non può essere revocata, dal punto di vista politico è evidente che mantenerla è una specie di abuso quando l’incompatibilità sostanziale di una funzione di garanzia con quella di guida di una formazione politica viene considerata negativamente da quasi tutte le forze parlamentari. Il Fini capopartito ha il diritto di insultare i parlamentari rientrati nella maggioranza accusandoli di essere affascinati dal potere finanziario del premier, il Fini presidente della Camera ha invece il dovere di tutelare la dignità e l’onorabilità di tutti i membri dell’assemblea, compresi quelli che secondo lui lo hanno “tradito”. Il fatto poi che l’effetto di quell’intemerata sia stato controproducente, che l’emorragia subita dai gruppi di Futuro e libertà non si sia arrestata, fa intendere che l’autorevolezza di Fini è ormai compromessa in ambedue le funzioni che si intestardisce a ricoprire simultaneamente.

Ora che ha potuto constatare che tenendo il piede in due scarpe non riesce a stare in piedi, allo stesso Fini converrebbe assumere pienamente la difesa della sua creatura politica che rischia lo sfarinamento abbandonando una carica istituzionale occupata in modo quasi abusivo secondo una opinione ormai assai diffusa. Lo slogan “se non ora quando” si adatta perfettamente al problema delle sue dimissioni, non a quelle di un presidente del Consiglio che ha finora ottenuto sempre la fiducia delle Camere. Fini, invece, si fa forza solo del fatto di non poter essere sfiduciato, ma arroccandosi su un aspetto procedurale finisce per perdere credibilità e per farla perdere, di conseguenza, all’istituzione che presiede e, insieme, al partito che guida. Sarebbe ora che si rendesse conto del vicolo cieco in cui si è cacciato e facesse la scelta necessaria per cercare di uscirne.

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