domenica 27 febbraio 2011

Gheddafi sprofonda la Libia nel sangue. Un milione di migranti pronti all’esodo

Tajura, uno dei sobborghi popolosi di Tripoli, è nelle mani dei ribelli. Gli oppositori avrebbero preso anche il grande porto della capitale. Non ci sono notizie ufficiali, ma servono poche conferme ai colpi di fucile che bucano la città. Le unità dell’esercito dispiegate a Jabal al-Akhdar, nella Cirenaica, si sono unite alle altre che hanno deciso di disertare. La parte orientale del paese, ormai, non è più sotto il controllo di Muammar Gheddafi. Il bilancio dei morti sale giorno dopo giorno: lunedì sembravano meno di cento, martedì al Arabiya ha parlato di mille vittime, ma ieri un esponente libico del Tribunale penale internazionale ha aggiornato la conta a diecimila. Anche i numeri dei rifugiati sono impressionanti: 5.600 persone sono già fuggite in Tunisia e diverse migliaia sono dirette in Algeria, ma le stime che riguardano l’esodo in Europa sono ben più drammatiche. 



Ieri Gheddafi è rimasto in silenzio, mentre i suoi mercenari entravano nelle case di Tripoli per macellare oppositori e innocenti (così secondo le più drammatiche denunce filtrate da Internet). Il rabbioso discorso di martedì sera, quello nel quale il rais ha annunciato che resterà in patria sino a quando avrà sangue nelle vene, non ha scoraggiato la guerriglia dei clan. Le divisioni, semmai, sono nella famiglia reale. La figlia di Gheddafi, Aisha, si sarebbe imbarcata su un volo diretto alla Valletta. Secondo il quotidiano Times of Malta, le autorità dell’isola hanno respinto lei e altre tredici persone a bordo di un piccolo aereo comparso all’improvviso sui radar, costringendolo a virare verso Cipro. All’inizio della settimana, il governo del Libano ha smentito le voci di un altro atterraggio di emergenza, effettuato questa volta da un pilota che trasportava Aline Skaf, la moglie di Hannibal, un altro figlio di Gheddafi. Ieri, il suo ex ministro della Giustizia ha accusato il colonnello di aver ordinato personalmente la strage di Lockerbie del 1988. Il suo sistema di potere, basato su alleanze familiari, sul sostegno dei militari e sul controllo esercitato dai servizi segreti, si allenta rapidamente. Come ha detto ieri il presidente della Comunità di Sant’Egidio, Marco Impagliazzo, “la Libia è caratterizzata dalle lotte tra i clan, la situazione potrebbe essere esplosiva proprio a causa di queste lotte”.

Impagliazzo ha parlato a Roma, a margine di un incontro sulla convivenza religiosa al quale ha partecipato anche il ministro degli Esteri, Franco Frattini. “Con la Libia tutti i politici italiani hanno dovuto trattare, perché la Libia è sostanzialmente confinante con noi – ha detto Impagliazzo – Ma con Tripoli fanno affari anche molti altri paesi europei. Oggi il problema non è questo, ma salvare il paese da uno scoppio dovuto a una guerra tra clan: devono vincere le ragioni politiche, ma anche l’intelligenza e la particolare conoscenza da parte del nostro paese nell’aiutare a risolvere la situazione politicamente”, ha concluso. All’intreccio fra le famiglie che si dividono da secoli il controllo del territorio sono legati l’esito della guerra civile e il destino della Libia.


I Qhadafa sono la tribù del rais: pure con il favore di Gheddafi, non oltrepassano il due per cento degli alti ufficiali, che sono concentrati nell’aeronautica. Non sono particolarmente influenti nel deserto orientale, ma hanno fama di essere particolarmente pretenziosi. Negli anni, Gheddafi ha cercato di ridurre il peso dei rivali con ogni strumento a sua disposizione. Fra loro, i Warfalla sono la tribù più numerosa: rappresentano un quinto della popolazione e sono predominanti in Tripolitania. Erano con il rais, ma già dal 1993 hanno iniziato ad agitarsi. Domenica, il loro sceicco Akram al Warfalla ha detto ad al Jazeera che “Gheddafi non è più un fratello, deve lasciare il paese”. Le sue parole hanno coinciso con la prima ondata di diserzioni nell’esercito, in cui i Warfalla sono tradizionalmente numerosi.


Attorno ai Warfalla ruotano gli Zintan, che nell’omonima città a sud di Tripoli hanno contribuito all’inizio della rivolta. Il loro sceicco al Jalal è apparso in un video su Facebook, chiedendo a tutti i membri del clan e a tutti i libici di scendere in piazza contro il regime. Gli Zuwayya sono invece il clan principale della Cirenaica,  in un’area ricca di petrolio: qui lo sceicco Faraj al Zuway ha minacciato di interrompere il flusso “entro 24 ore”.
Sulla Cirenaica pesa anche una irrisolta questione regionale, che affonda le proprie radici al periodo in cui il governatore turco stava a Tripoli: allora, la confraternita rigorista della Senussia approfittò della situazione per stabilire un potere di fatto nell’est. Ma la minaccia di tagliare il flusso del petrolio è venuta anche dagli Zawhiya, che vivono nell’estremo ovest.


Oltre alle tribù ci sono le minoranze etniche vere e proprie. I berberi nomadi tuareg del sud si sono uniti alla rivolta. Quelli montanari del Gebel Nefusa avevano già scatenato una protesta violenta a dicembre. I tebu negroidi del sud est non sono da meno: uno dei loro leader si è dato fuoco il 17 febbraio.

Caro Fini, se non ora quando?

La doppia presidenza di Gianfranco Fini, che pure si è formalmente “sospeso” da quella di Futuro e libertà ma è costretto a esercitare anche quella funzione data la crisi che ha investito il partito, crea imbarazzo soprattutto ai suoi potenziali alleati. Le opposizioni, che si erano immediatamente schierate contro la richiesta di dimissioni del presidente della Camera avanzate dal Pdl, ora fanno intendere che la condizione di Fini è diventata insostenibile da quando ha assunto la guida di un partito. Ora anche Antonio Di Pietro ammette, come già avevano fatto numerosi esponenti del Partito democratico, che, nelle condizioni di Fini, avrebbe abbandonato il seggio più alto di Montecitorio. Se, dal punto di vista giuridico, la carica istituzionale non può essere revocata, dal punto di vista politico è evidente che mantenerla è una specie di abuso quando l’incompatibilità sostanziale di una funzione di garanzia con quella di guida di una formazione politica viene considerata negativamente da quasi tutte le forze parlamentari. Il Fini capopartito ha il diritto di insultare i parlamentari rientrati nella maggioranza accusandoli di essere affascinati dal potere finanziario del premier, il Fini presidente della Camera ha invece il dovere di tutelare la dignità e l’onorabilità di tutti i membri dell’assemblea, compresi quelli che secondo lui lo hanno “tradito”. Il fatto poi che l’effetto di quell’intemerata sia stato controproducente, che l’emorragia subita dai gruppi di Futuro e libertà non si sia arrestata, fa intendere che l’autorevolezza di Fini è ormai compromessa in ambedue le funzioni che si intestardisce a ricoprire simultaneamente.

Ora che ha potuto constatare che tenendo il piede in due scarpe non riesce a stare in piedi, allo stesso Fini converrebbe assumere pienamente la difesa della sua creatura politica che rischia lo sfarinamento abbandonando una carica istituzionale occupata in modo quasi abusivo secondo una opinione ormai assai diffusa. Lo slogan “se non ora quando” si adatta perfettamente al problema delle sue dimissioni, non a quelle di un presidente del Consiglio che ha finora ottenuto sempre la fiducia delle Camere. Fini, invece, si fa forza solo del fatto di non poter essere sfiduciato, ma arroccandosi su un aspetto procedurale finisce per perdere credibilità e per farla perdere, di conseguenza, all’istituzione che presiede e, insieme, al partito che guida. Sarebbe ora che si rendesse conto del vicolo cieco in cui si è cacciato e facesse la scelta necessaria per cercare di uscirne.

giovedì 17 febbraio 2011

ITALIA SENZA SPERANZA

http://video.corriere.it/non-c-piu-speranza-l-italia-/146ba500-39c9-11e0-bd09-192dc2c1a19a