martedì 7 febbraio 2012

IO NON LA PENSO COSI' ! E VOI ?

                                                                                      Martedì 07 Febbraio 2012



Ma Sgarbi e la Sicilia
sono fatti per piacersi

Il legame della provocazione barocca che unisce il critico e la terra della corda pazza

di Carmelo Caruso
Inveisce contro la magistratura e si dimette da sindaco salvo nominare come vice proprio Giuseppe Giammarinaro, l'uomo che ha spezzato quel balocco che era diventato Salemi, il suo seggio d'artista. Insomma, Vittorio Sgarbi è diventato più siciliano dei siciliani al punto da contraddirsi piuttosto che ammettere di aver confuso Giammarinaro per un mecenate, per un Ludovico Corrao senza pastrano. Potrebbe essere quindi sciolto per infiltrazioni mafiose quel comune di Salemi che da quando Sgarbi ne divenne sindaco, si trasformò da municipio a laboratorio della provocazione, salotto siciliano del primo critico che non critica se stesso.

E lo scioglierebbe non il governo dei professori, bensì gli emissari del precedente ministro degli Interni, il leghista dal volto umano, Roberto Maroni, che sarebbe stato sollecitato dallo stesso Sgarbi a ispezionare un Comune più opaco delle tele di Giorgio Morandi. E' una relazione di questi ispettori che non sono i magistrati di Trapani  -  contro i quali il critico ha ingaggiato una lotta lessicale di termini e faldoni  -  a mettere Sgarbi di fronte ad un'opera cominciata nel segno dell'avanguardia artistica e finita nel retrobottega di Giammarinaro, la politica siciliana del consiglio e dell'aggiustamento. 

"Giammarinaro partecipa alle riunioni senza alcun titolo", diceva già in precedenza quel vecchio amico di Sgarbi, il fotografo Oliviero Toscani, a cui Sgarbi dedicò (in una trasmissione nefasta per la Rai e per se stesso), una poesia di Dylan 
Thomas: "Amico da nemico io ti sfido/ tu con monete false negli occhi/che per vera mi rifilasti la menzogna". Si è nascosta dunque nella voce dei nemici la verità sull'amico, su quel Giammarinaro che volle Sgarbi a Salemi e da cui lo stesso critico ha preso subito le distanze. Come dire, è stato Sgarbi che mettendo alla porta Giammarinaro, come ripete con il suo tono irritato, si è messo alla porta e c'è da credere che nella sua collera ci sia la collera del collezionista a cui hanno rifilato un falso.

L'isola è piena di Giammarinaro, vecchi deputati che scelgono per scegliere e che poi altro non sono chedecoupage, il vecchio che s'incolla sul nuovo. Sgarbi è infatti troppo colto per non riconoscere che questo ex deputato democristiano era a Salemi il gallerista che pretendeva di fare l'artista, la voce grossa che nasconde l'idea geniale, il precettore che redarguisce il talento e la bellezza, la stessa che lui importava in quel piccolo ricettacolo trapanese. Adesso è Sgarbi che si dimette da sindaco di Salemi, ma prima si dice pronto a nominare Giammarinaro vicesindaco (come provocazione nei confronti degli inquirenti), poi querelare gli ispettori, andare dal ministro Cancellieri e infine non tornare più in Sicilia.
Ed è questo il solito Sgarbi, il critico che riesce a fare di un errore una colpa altrui, che da un cattivo esempio pensa di trarne una lezione sulla giustizia, sull'arroganza di verità che hanno a suo dire i magistrati. Ma Giammarinaro non è certamente un personaggio della Mitteleuropa, una marionetta del caso, e difenderlo non è una tenzone illuministica così come difenderlo non è una lotta di civiltà come facevano  gli artisti con il professore Braibanti dall'accusa di omosessualità. Insomma questo vecchio notabile della Dc non è un perseguitato, ma un uomo su cui si può indagare senza gridare all'eretecità del genio imprigionato tra le maglie dell'autorità o dello Stato.

E però, ciò non toglie che è proprio merito di Sgarbi se in Sicilia e in quel piccolo centro che è Salemi si è riscoperta la corda matta, assurda e grottesca dell'arte che copre tutto o che si sia creato un museo della mafia, forse il primo museo che non conserva un concetto o delle opere, ma che rilancia un dovere astratto. Certo, è sempre la solita idea errata secondo la quale basta snaturare un paesaggio con l'arte per immetterci anche un modo d'intendere gli uomini e le cose e pertanto modificarlo. Anche la Salemi di Sgarbi era una sorta di Gibellina più eccentrica, teatro delle sue querimonie tanto da improvvisare la fiaccolata anti-investigatori o nominare il cantautore Morgan assessore all'ebbrezza per arringare la stampa. Eppure è merito del critico che se ne va, aver fatto di Salemi una succursale della Biennale di Venezia, averla fatta sentire periferia di Parigi con i suoi Cezanne piuttosto che di Trapani, averne fatto un suo ninnolo, ma non per questo negato alla vista di tutti,  come sarebbe pronto a fare anche a Cefalù dove qualcuno già lo vorrebbe sindaco o assessore.

Insomma, non è vero che Sgarbi può andarsene dappertutto a portare i suoi guizzi ribaldi, le invettive sapide e i suoi quadri amati. Non è infatti il Nord, dove ha già dichiarato di tornare, che lo accoglierebbe come la Sicilia ha fatto con lui. Alla fine rimane proprio quest'isola la terra migliore per ospitarlo e non soltanto perché rimane l'ospizio dell'insania - c'è passato Cervantes, c'è passato Caravaggio - ma perché non c'è popolo più adatto ad accoglierla. E' in Sicilia che deve stare il barocco, l'esagerazione, i quadri che scopre Sgarbi e la malapolitica che scova la guardia di Finanza. Ed è sicuro che ritornerà l'eccentricità di questo critico, tutto quel circo felliniano che porta quando si sposta, poiché la Sicilia è un po' come Sgarbi: la via di mezzo tra arte e confusione. Necessaria.

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