domenica 17 marzo 2013

FRANCESCO E LA DECRESCITA !

Immancabilmente si è iniziato a definire "grillino" il nuovo Papa. Era dalla sera dell'elezione che immaginavo che qualcuno avrebbe cominciato a far paragoni tra la sobrietà di Bergoglio e lo stile dei cinquestelle: gira in metrò, ha la croce di ferro e non d'oro, sale sul pulmino, paga il conto dell'hotel, e così via. Insomma un vero progressista come nemmeno Nichi Vendola poteva immaginarsi. Addirittura un paladino della decrescita. L'uomo giusto per la tanto attesa e decantata riforma della Chiesa, e chissà, del mondo, wow! Ma per fortuna c'è una cosa che la stupidità umana non può rovinare. E' lo stupore carico di attesa e di presenza che si è espresso in quel mezzo minuto di silenzio in piazza San Pietro, quando Francesco ha chiesto a noi di pregare per lui. Un silenzio che ha sovrastato e che continua a sovrastare qualunque chiacchiericcio, anche quello televisivo o internettiano e anche quello che si sente oggi in Parlamento. 


Il non contatto

Giorno uno. Così l’esercito grillino manifesta il terrore di avvicinarsi a un potere che però rivendica

E’ il giorno dello sbarco a Cinque stelle nel Parlamento da “aprire come una scatola di tonno”, il giorno in cui sedersi in alto per “tenere il fiato sul collo” agli altri, gli eletti dei partiti. E’ giorno di schede bianche (del Pd) e di applausi grillini per i 113 voti al terzo scrutinio (quattro più di quelli attesi) per Roberto Fico, candidato presidente della Camera. Ma il primo sguardo dentro l’Aula, la mattina, trova un gruppo che non può più distinguersi quanto vorrebbe, essendo entrato nel luogo in cui non sempre si potrà liquidare come “inciucio” il reciproco studiarsi con gli altri rappresentanti eletti. Sono mischiati agli altri, ora, i parlamentari del M5s, hanno dovuto mettere la giacca come gli altri (“ci siamo vestiti bene per rispetto delle istituzioni”), non possono più evitarli, gli altri, anche se in parte evitano di alzarsi con gli altri per l’applauso al presidente Giorgio Napolitano (qualcuno resta seduto a braccia conserte, per poi tributare omaggio alle parole “giovani” e “Aldo Moro”). Sono in mezzo agli altri anche se sbandierano il non contatto come metodo, i parlamentari a Cinque stelle che si stipano in una sala al primo piano pur di non esporsi alla contaminazione con colleghi e giornalisti nel Transatlantico: lo fanno pochi alla volta, e quando lo fanno occupano lo spazio attorno al più influente del gruppo, a dispetto della fede cieca nell’essere intercambiabili. Alcuni sono anche visibilmente orgogliosi di essere avvicinati dal famoso giornalista televisivo, ma è un’umana soddisfazione da negare subito, da ricacciare indietro, ché la normale ambizione non si può dichiarare, se non si vuole contraddire la parola calata dal blog di Beppe Grillo – colui che il settimanale tedesco Spiegel ha definito “l’uomo più pericoloso d’Europa” con il suo “antiparlamentarismo radicale, in sostanza antidemocratico”
E’ il momento in cui l’esercito grillino manifesta il terrore di avvicinarsi a un potere che però rivendica (a noi il governo, a noi i questori, a noi le presidenze delle Camere), e ogni atto deve ribadire una distanza già accorciata: “Spreco”, dice la capogruppo Roberta Lombardi al pensiero dei “quattrocentoventimila euro” spesi per una giornata di schede bianche, ma fa parte di quella giornata anche chi, come il M5s, vota il suo candidato a oltranza e dice “o tutto o niente” (con il 25 per cento dei consensi – tanto ma non tutto, per fortuna). Si danno al parossismo di una coerenza sulle piccole cose, i Cinque stelle, rimandando la responsabilità su quelle grandi, e reiterano il gesto del bicchiere di plastica non buttato dopo la prima bevuta – scriviamoci sopra col pennarello che sa di acquaragia, anzi portiamoci i bicchieri da casa. 
Non ci vogliono credere, i Cinque stelle, all’immagine che di loro rimanda il controllo dall’alto del capo e ispiratore, e però i conti con quell’immagine prima o poi dovranno farli (per ora stanno attenti a non dirsi diversi da lui). Non si sentono “oppressi” da Grillo, i neo eletti, e anzi sono “contenti di potergli chiedere un consiglio”, dice il deputato venticinquenne Francesco D’Uva: “Mi sento libero”, dice, “altrimenti non sarei qui, sono qui per far entrare i cittadini nelle istituzioni e non per consegnare le istituzioni a qualcuno”, anche fossero “Grillo e Casaleggio”. Ci si rinserra tra eguali, anche se quando si scende in pubblico si fatica a restare “marziani” e a non mostrarsi incuriositi – Stefano Vignaroli si guarda intorno cordiale, Mario Giarrusso accompagna i famigliari in Senato. E qualcuno sembra già a suo agio nel cortile, per niente scocciato dall’assalto di quelli che Roberta Lombardi, con involontario tic da Prima Repubblica, chiama “pennivendoli” (il gruppo grillino si vuole nuovo, ma per contrastare gli attacchi mediatici usa sempre due vecchi automatismi: “macchina del fango” e “gogna” ). ”

Guardare per credere

La talare semplice e il pulmino collettivo, l’altare rivolto all’assemblea e la rinuncia ai segni regali (per lo sconforto del cerimoniere Marini). Semiologia dei primi gesti, riusciti e programmatici, di Papa Francesco

Tutto, fino alla prima apparizione di Papa Francesco dalla Loggia delle Benedizioni mercoledì sera, aveva seguito fedelmente il copione meticolosamente preparato dal maestro delle Cerimonie liturgiche, Guido Marini. I drappi rossi che rivestivano le colonne ai lati della grande vetrata, le tende tirate, le luci accese sulla piazza gremita. Le campane che, a differenza dell’ultimo Conclave, non si erano fatte attendere e avevano immediatamente confermato che la fumata era bianca. Anche le modalità dell’annuncio atteso, l’Habemus Papam, erano state riviste. Cancellata l’introduzione poliglotta che si era sentita nel 2005, ritorno al tradizionale accusativo latino per svelare il nome pontificale scelto dall’eletto. E così il protodiacono Jean-Louis Tauran, in abito corale scortato da due cerimonieri, declamava “Franciscum”. Otto anni fa, al suo posto, il cardinale Medina Estevez disse “Benedicti” e prima ancora, nel 1978, Pericle Felici stupì i puristi della lingua con quel doppio “Ioannis Pauli” pronunciato due volte tra l’agosto e l’ottobre di quell’anno. Nessun errore, si giustificò più tardi il cardinale: era genitivo epesegetico, tutto perfettamente in regola. Un’innovazione che, più di trent’anni dopo, sarebbe stata cancellata. Un ritorno, l’ennesimo, alla tradizione.
Quando però Francesco è apparso ai fedeli, i più attenti hanno capito che qualcosa, nella Stanza delle lacrime, era successo. Lo rivelava lo sguardo cupo di monsignor Marini, fermo un passo dietro il Papa con la stola in mano. Davanti a lui, il vescovo di Roma vestito con la sola talare bianca. Senza mozzetta di velluto rosso bordata d’ermellino. Senza croce d’oro, che il Papa per tradizione porta al petto. Niente scarpe rosse, benché fossero già pronte a corredo del vestiario papale, niente gioielli e orpelli. D’altronde, il nome scelto dall’eletto già indicava un programma preciso: la volontà di purificare la chiesa e di reggerla mentre è prossima al crollo, affinché non cada. Come nel Sogno di Innocenzo III affrescato da Giotto nella Basilica superiore di Assisi.

Il giorno dopo l’elezione, in Cappella Sistina, altri segni confermavano che l’apparato simbolico liturgico stava rapidamente mutando. A cominciare dall’altare mobile messo davanti al “Giudizio” michelangiolesco per permettere di celebrare l’Eucarista rivolti verso il popolo e non verso Dio. “Almeno sono rimasti i candelabri sull’altare”, notava sconsolato chi aveva apprezzato entusiasta il ritorno alla tradizione voluto da Joseph Ratzinger. Un segno che per qualcuno che l’applicazione del Motu proprio “Summorum Pontificum” emanato dal Pontefice tedesco nel 2007 che disciplinava la libera e corretta celebrazione della messa tridentina, non sarà tra le sue preoccupazioni. Papa Bergoglio, poi, entrava in processione nella Cappella con la mitria personale sul capo (quella che era solito portare a Buenos Aires) e con una semplice casula. Niente rocchetto di pizzo, nulla che lo distinguesse dai suoi “cari fratelli” cardinali concelebranti. L’unico riferimento simbolico a Benedetto XVI era la ferula, il pastorale che (a differenza di quello dei vescovi) non si curva. L’omelia, poi, non è stata pronunciata dal trono ligneo, ma dall’ambone. A essere messo in discussione non è tanto il primato petrino, quanto la sua interpretazione. Francesco parla di se stesso come vescovo di Roma – “la chiesa che presiede nella carità tutte le altre chiese” –, apre alla collegialità episcopale, chiama al suo fianco il vicario Vallini.
Che provi insofferenza per i cerimoniali rigidi, Bergoglio l’aveva già fatto capire la sera dell’elezione, quando decise di tornare a Santa Marta in pullmino, insieme ai suoi elettori. La macchina ufficiale non sarebbe stata usata neppure la mattina seguente, per la visita a Santa Maria Maggiore, quando Francesco preferì sedersi sul sedile posteriore di una modesta berlina. Uno stile semplice e personale ribadito anche ieri, durante l’udienza ai cardinali nella Sala clementina. Oltre al candido bianco della talare, Francesco si è concesso solo un’altra nota di colore: un braccialetto giallo che il cardinale sudafricano Fox Napier gli ha donato e che lui, senza esitazione, si è allacciato al polso. Con l’aiuto di un divertito Georg Gänswein, prefetto della Casa pontificia.

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